Risveglio

C’è lei appena scesa dal panfilo

C’è lui iper tatuato

C’è lei tatuata uscita da PornoHub

C’è lei in tutina fluo (sempre lei)

C’è lui con i pinocchietti grigi

C’è lei con la pancia in dolce attesa

C’è lui con la pancia in attesa del dolce

C’è lei con il pareo che non copre quello che dovrebbe stare coperto 

C’è lui con il Tuttosport che piange

C’è la coppia di trekkers con zaini da Himalaya che va in spiaggia 

C’è la coppia e di bikers che chiede un centrifugato e nessuno sa cos’è 

C’è molta cellulite

Ci sono Lolite con shorts inguinali 

Ci sono maxi Lolite con culi oversized 

….intanto la focaccia con le cipolle è finita e mi sveglio…sono finite le vacanze

Lockdown

Nessun dato è semplicemente “dato”, ogni dato è l’esito di una scelta osservativa, di un’interpretazione, di un’intenzione, di una politica. Non c’è visione del mondo che non sia frutto del convenire degli sguardi, delle attitudini, delle scelte consapevoli e inconsapevoli di una comunità; e non c’è cultura condivisa da un gruppo che non operi delle semplificazioni perché, come insegnano le scienze fisiche, il reale è troppo complesso per essere afferrato a partire da una sola prospettiva.

Finché tali semplificazioni non sono eccessive, quel mondo resta vivibile; se lo diventano, e non sono più in grado di “reggere” all’impatto dell’esperienza, si arriva a quella che Ernesto de Martino (filosofo/antropologo allievo di Croce) chiamava «apocalisse culturale», un soprassalto del reale che scompagina il quadro condiviso e mette a rischio la tenuta di quel mondo. Quando ciò accade, quel che si rivela non è il reale nella sua oggettività primigenia, ma una sorta di “buio epistemologico”, nel quale occorre navigare a vista con strumenti antichi.

È quanto possiamo osservare nell’emergenza Covid-19, vera e propria “macchina di visione” in grado di strapparci al sonno delle nostre convinzioni e rimetterci di fronte alla complessità del reale. Nella più grande crisi pandemica del dopoguerra, non abbiamo dati affidabili né sul numero di infettati, né sul numero di morti, né sugli effetti delle diverse misure di contenimento, né su quel che si prospetta per il prossimo futuro.

Effetto nocebo: Persone intimorite dagli effetti collaterali ipotizzati da un martellante invito alla attenzione ed alla prudenza. 

Il costante allarmismo del duo politica-media induce molta gente ad essere spaventata, e dunque a non ragionare in modo lucido. Perché è molto più facile indirizzare qualcuno quando è intimorito, e quindi dirgli quel che deve fare, manovrarlo. In una situazione di stress, un poveretto rischia di farsi prendere dal panico, finendo per seguire i consigli di individui solo in apparenza più sicuri o qualificati. 

Quel poveretto, di solito, siamo noi. 

– 1989 : Un anno come tanti altri. Ma in realtà l’aumento dell’uso del termine “emergenza” può essere collocato con una certa precisione nell’autunno del 1989. Sembrò quasi coincidere con la caduta del Muro di Berlino. Che avvenne il 9 novembre di quello stesso anno. 

La caduta del Muro di Berlino segna il collasso dell’impero sovietico. 

E’ la fine della Guerra Fredda, che in Occidente era durata mezzo secolo. 

Attraverso questa considerazione ed al quasi repentino cambio di rotta della comunicazione si vuole arrivare alla nozione di controllo sociale, alla necessità che ogni stato sovrano, attraverso i suoi strumenti (ed i Media ne sono oggi parte integrante), ha di esercitare un controllo sul comportamento dei propri cittadini, per tenerli tranquilli e renderli ragionevolmente docili per aggregarli ad un “pensiero comune”.

E naturalmente sappiano che il controllo sociale lo si gestisce al meglio attraverso la paura. Per cinquant’anni, le nazioni occidentali hanno tenuto i loro cittadini in uno stato di paura costante. 

La paura del diverso. La paura della guerra nucleare. La minaccia comunista. La Cortina di Ferro. L’Impero del Male come all’interno del blocco comunista e come ancora oggi in Corea del Nord, Birmania e Cina, al contrario, viene dipinto l’Occidente. 

Poi, improvvisamente, nell’autunno del 1989, tutto finì. Si volatilizzò. 

La caduta del Muro di Berlino ha lasciato un vuoto di paura. 

La natura aborre i vuoti. Qualcosa  doveva riempirlo. E’un dato di fatto che l’emergenza ambientale fu una delle prime nuove paure globali a prendere il posto della Guerra Fredda, ora c’è anche il fondamentalismo radicale e il terrorismo post 11 settembre a spaventarci le pandemie di questo o quel tipo: e questi sono certamente motivi reali per aver paura ma non è questo il punto. Il punto è che la paura ha sempre una causa. La causa può cambiare il corso del tempo, ma la paura è sempre con noi. Prima del terrorismo avevamo paura dell’inquinamento. Prima di questo c’era la minaccia comunista. Il punto é malgrado la causa specifica della nostra paura possa cambiare, questa non ci abbandona mai. 

La paura pervade la società in ogni suo aspetto. Continuamente. 

Abbiamo mai fatto una profonda riflessione di quanto sia sorprendente la cultura della società occidentale? Le nazioni industrializzate forniscono di base ai propri cittadini sicurezza, salute e benessere. 

Nell’ultimo secolo, l’aspettativa media di vita è salita del 50 per cento. Eppure la gente moderna vive nella paura. Ha paura degli stranieri, delle malattie, del crimine, dell’ambiente. Ha paura dell’ambiente che la circonda, del cibo che mangia, della tecnologia che avidamente utilizza ma che viene indicata come potenzialmente pericolosa. 

Fino agli anni 80 negli Stati Uniti si faceva scarsissimo uso di acqua minerale in bottiglia; l’unica acqua che si beveva era quella ghiacciata e clorata nei fast food quando ci si sedeva a tavola. A volte si beveva la “soda” che sembrava una “Perrier al cubo”! 

Oggi, in America ed anche in Europa nessuno esce di casa senza una bottiglietta di acqua, quasi fosse imminente una siccità globale ! 

Molti sono poi terrorizzati in particolare da cose non possono vedere – germi, sostanze chimiche additivi inquinanti. Sono timidi, nervosi, scontrosi e depressi, e cosa ancor più sorprendente, si sono convinti di essere loro quelli che  stanno distruggendo l’ecosistema del pianeta. Non si rendono conto che abitiano qui su questo pianeta solo da un batter d’occhio. Se domani non ci fossimo più, la Terra non sentirebbe la nostra mancanza. Il Pianeta non è in pericolo. Noi siamo in pericolo. Non abbiamo il potere di distruggere il Pianeta o di salvarlo.

Siamo così presuntuosi da crederci e abbiamo solo il potere di salvare noi stessi!

Hic Rhodus, hic salta è una frase latina il cui significato letterale è «Qui [è] Rodi, salta qui ». Il senso traslato è «Dimostraci le tue affermazioni, qui e ora,subito».

Ora più che mai bisogna riaffermare che la realtà è enormemente complessa e può essere – parzialmente – afferrata solo attraverso un pensiero complesso. Attorno a questo nodo si giocheranno le possibilità di uscita intelligente dalla crisi; e, d’altro canto, la semplificazione della complessità è, da sempre, operazione reazionaria di dominio sulle coscienze.

In questi mesi siamo stati invasi da analisi di ogni tipo per contribuire  a render conto dei fatti: vi si mescolano la ricerca microbiologica sul virus, i dati epidemiologici, le politiche di contenimento, le politiche nazionali, le rese dei conti fra capitale e lavoro salariato, lo sconcerto della popolazione, gli effetti di quarant’anni di neoliberismo sulle strutture della sanità pubblica, strutture pubbliche che non ne hanno goduto più ampiamente, sulle catene biotiche ed ecologiche a livello mondiale, i livelli d’inquinamento, le scelte amministrative e politiche ecc…ecc.

Quindi : il reale è troppo complesso per essere afferrato a partire da una sola prospettiva!

– In un quadro concettuale antropologicamente avvertito, è che neanche la pandemia Covid19 è qualcosa di dato e di universale, anch’essa pare essere per alcuni il prodotto di una storia in cui diversi fattori interagiscono in modi complessi. Le relazioni fra umani e ambiente; il clima; il tipo di cibo disponibile; la distribuzione del potere e delle risorse; le pratiche igieniche e rituali; la definizione di salute e le tecniche per mantenerla; le descrizioni delle malattie; le tecniche di cura: tutto questo, e molto altro ancora, influisce sui modi in cui ci ammaliamo e sulle vie possibili per la guarigione.

E’ possibile che la gestione della crisi operata all’intersezione fra politiche nazionali e locali e le strategie comunicative delle istituzioni pubbliche e dei grandi mezzi d’informazione abbiano innalzato il rischio di mortalità da Covid-19 e anche inducendo paura, panico e paranoia nella popolazione.

Cominciamo con un’analisi sommaria della trattazione mediatica dell’epidemia. Sulla dinamica dei grandi mezzi di comunicazione non vale la pena insistere: nel libero mercato dell’informazione vince chi riesce a catturare l’attenzione e poi a tenerla, ed è noto che la paura è un gancio eccellente. In Italia la copertura mediatica accordata al Covid-19 è stata, fin dall’inizio, spropositata, frenetica e allarmistica.

Per cominciare, c’è stato un convergere esclusivo e ossessivo su questo singolo tema. Alcuni ricorderanno la distanza abissale, nelle prime due settimane di marzo, fra quanto si leggeva sui giornali italiani e quanto proponevano invece le testate francesi, inglesi e tedesche – discrepanza che è stata causa di angosce bidirezionali: quella degli italiani all’estero, che sospettavano una minimizzazione del problema da parte delle nazioni ospitanti; e quella degli italiani in Italia, che sospettavano un’esagerazione del problema da parte del nostro governo. In questa fase, le celebrità dell’infosfera hanno fatto per intero la loro parte, allarmismo e negazionismo esasperati hanno occupato l’intero della scena pubblica e il premio della visibilità è andato a chi ha urlato più forte usando l’insulto in luogo delle argomentazioni.

Subito dopo, in concomitanza con il rapido susseguirsi dei DPCM, immagini di medici in tuta spaziale che parevano tratte da B-movies hollywoodiani hanno invaso gli schermi, mentre il conteggio di morti e infettati diventava un macabro rituale quotidiano. All’indomani del primo sconcerto, la comunicazione ha imboccato con molta decisione una battente retorica di stampo bellico, punteggiata di richiami all’immaginario apocalittico che giace nell’inconscio sociale già da decenni.

Anziché informare sulla situazione – e cioè esporre quel che è noto, ammettere ciò che non è noto e discutere delle diverse scelte possibili – le retoriche di guerra hanno compattato l’inconscio sociale intorno alle necessità straordinarie imposte dalla lotta senza quartiere contro un nemico invisibile, ubiquo e pericolosissimo.

Per sua parte, la politica italiana si è espressa, sia a livello regionale che a livello nazionale, nelle consuete forme paternalistiche e opportunistiche: ad esempio, nelle decisioni sull’uso delle strutture; nella scelta di non fare (o fare) i tamponi; nei comandi contraddittori sull’uso delle mascherine. Anziché coordinare le diverse competenze del settore pubblico per gestire la crisi nella maniera più efficiente e meno traumatica possibile, le scelte delle regioni e del governo hanno riverberato in modo feroce sulle possibilità operative dei medici e del personale sanitario, imbrigliando i loro interventi in funzione della convenienza politica e delle necessità elettorali di una schiera di “uomini forti”. La compensazione simbolica si è giocata sull’eroizzazione del personale sanitario (salvo poi non gratificarlo e proteggerlo con adeguate protezioni), a tutto vantaggio del melodramma emotivo bellico-nazionalista.

Nella stessa direzione è andato anche il varo di misure di contenimento particolarmente vessatorie rispetto a quelle di altre nazioni. Ferma restando la necessità di rallentare il contagio e la difficoltà, in situazioni di buio epistemologico, di discernere fra ciò che è efficace e ciò che non lo è, le disposizioni italiane sono arrivate all’assurdo: divieto di uscire insieme per chi vive nella stessa casa; di passeggiare da soli nei parchi o nei boschi; di stare all’aria aperta; di far uscire i bambini; di fare la spesa fuori dal quartiere di residenza; di andare in spiaggia. In nessuna altra parte dell’Europa o del mondo democratico è successo in modo così coercitivo a colpi di decreti. 

Assurdità di dubbia tenuta costituzionale, che hanno criminalizzato gli affetti e le reti familiari e costretto alla semi-clandestinità le realtà territoriali solidali laiche e religiose, che garantivano la sopravvivenza alle fasce più deboli ed emarginate. 

E che, di conseguenza, potevano essere fatte rispettare solo autorizzando i controllori all’abuso.

Analogamente, alcune delle misure ipotizzate e ampiamente mediatizzate – lavare le strade con ammoniaca, lasciare la spesa fuori dalla porta di casa per giorni, disinfettare i vestiti con cui si esce,lasciare le scarpe fuori dalla porta – possono suonare ragionevoli solo in un progetto delirante, e dalle assonanze orribili, di igienizzazione del mondo.

La stampa, a ruota, ha preferito battere la gran casse degli ammonimenti e dei divieti piuttosto che spiegare e discutere criticamente, fino al caso di chi, come Barbara D’Urso, ha fatto audience mostrando cacce all’uomo con i droni sulle spiagge riminesi e istigando il pubblico a dar corso a emozioni da Ku Klux Klan.

Qui troviamo un altro boccone amaro, quello delle emozioni politiche, il modo in cui il discorso pubblico dà forma, sostanza e durata a ciò che proviamo verso gruppi di “altri”: stranieri, migranti, membri di altre classi sociali, cittadini di nazioni nemiche, cittadini di regioni contagiate ecc. 

In relazione all’epidemia di Covid-19, l’infosfera italiana ci ha mostrato non solo come avremmo dovuto comportarci, ma anche cosa dovevamo provare, generando emozioni, odi e polarizzazioni i cui effetti misureremo in tutta la loro portata solo all’uscita dall’emergenza.

Speciale attenzione meritano il distanziamento sociale, che vieta per legge il contatto con il prossimo, e il divieto di celebrare riti di qualsiasi genere.

I riti pubblici – lauree, messe, matrimoni, battesimi, funerali – sono stati vietati tout-court anche laddove sarebbe stato possibile farli in tutta sicurezza a ranghi ridotti. Particolarmente tragico, come altri hanno fatto notare, la combinazione fra l’isolamento totale dei malati di Covid-19 negli ospedali e il divieto di salutarli una volta morti. 

Non c’è alcuna sicura ragione medica a fondamento di una norma così crudele, ma solo una scelta politica dettata dalla necessità di fare troppo dopo che si era fatto troppo poco.

Quando la consuetudine è sovrascritta per decreto, quando gli istituti del vivere umano sono passibili di annullamento improvviso, quel che ne risulta è la crisi della presenza individuale e collettiva.

Proprio perché sono misure gravissime, distanziamento sociale e sospensione dei riti avrebbero dovuto essere trattati in tutt’altra maniera: si trattava di rendere meno traumatiche possibile misure che hanno comunque una funzione  destrutturante. 

Perché questo fosse possibile, tuttavia, si sarebbe dovuto attribuire agli italiani lo statuto di adulti in grado di valutare i rischi e di attenersi a comportamenti ragionevoli – ipotesi che, con ogni evidenza, non è quella del governo. E così non è stato fatto: non si è preso in considerazione nemmeno per un attimo il livello di civismo del paese, considerandolo di fatto inesistente. 

Subito dopo sono arrivati il bisogno di sicurezza e la necessità emotiva di aderire a una qualche interpretazione comune dei fatti e di azione collettiva. Bisogni umanissimi, in tempi di incertezza, che tuttavia non hanno prodotto alcun risultato (cantare dal balcone, l’inno nazionale tutte le sere, l’applauso a qualcuno medici,polizia,carabinieri ecc..) sui quali si è invece innestata di una forma particolarmente errata di unità nazionale di stampo piagnucoloso, consolatorio e  plaudente. 

Un’ampia letteratura psicosociale analizza questi fenomeni; nel caso italiano, esso si esprime, tra l’altro, con la delazione dei vicini e con l’uso diffuso delle mascherine come testimonianza pubblica di adesione a una messinscena sociale che rassicura e permette di posizionarsi dal lato giusto della barriera che separa gli onesti e adempienti cittadini dai colpevoli untori. (crociate di Gassman su Twitter)

Il reagire, creare perplessità, cercare di analizzare più a fondo su un (dis)sentire diffuso mediaticamente indotto, crea sospetto: 

la possibilità di distanza critica sparisce, la perplessità è già tradimento.

È osservazione comune come, anche all’interno degli ambienti politicamente più attenti, sia necessario astenersi da osservazioni critiche in merito agli eventi pandemici per non rischiare riprovazione, scontri o rotture.

La via prescrittiva paternalista – #iorestoacasa, applausi alla finestra, in emergenza non si pensa ma si agisce, accetta ogni controllo da parte delle forze dell’ordine, lasciati tracciare – è una pista magistrale per il totalitarismo del pensiero. 

Inoltre, produce un circolo vizioso emotivo-cognitivo particolarmente perverso: non solo chi rompe le regole è passibile di punizione, ma rischia di morire, e di far morire, per le immediate conseguenze del suo stesso gesto. Una “colonia penale” che richiederebbe la penna di un novello Kafka.

Non è in discussione la pericolosità del Covid-19 né la necessità di misure straordinarie di contenimento, in particolare a fronte della scarsa tenuta del sistema sanitario. Ciò che è in discussione è la pericolosità dell’induzione di terrore da parte di chi è delegato alla gestione della cosa pubblica e all’informazione.

Ci si immette in un circuito perverso e pericolosissimo: tanto maggiore la paura dell’altro e il bisogno ossessivo di proteggersi dall’esposizione, tanto più ci si qualifica come bravi e obbedienti cittadini. È il circolo vizioso e psicopatologico nel quale molti, oggi, si trovano murati.

Per tradurre queste perplessità in qualcosa di minimamente scientifico sarebbe necessario uno studio comparato sulla morbilità/mortalità del virus in diverse nazioni in relazione alle politiche di contenimento e allo stile comunicativo dei grandi mezzi di informazione . Nondimeno, se quest’ipotesi fosse anche solo parzialmente confermata, allora le escalation retoriche a cui abbiamo assistito, lo sfruttamento della paura a scopi spettacolari e le strategie comunicative degli “uomini forti” dovrebbero essere considerati con tutta la severità che si applica ai gesti carichi di conseguenze.

La società dello spettacolo è una forma di cattura psicologica integrale dei soggetti, che li costringe a vivere e morire secondo linee finora sottratte alla pubblica riflessione. La manipolazione emotiva in vista dello share o del voto non sono trucchi innocenti, ma veri e propri attacchi all’integrità ed alla dignità dei soggetti esposti.           I loro effetti andrebbero dunque aggiunti sul piatto delle molte responsabilità politiche .

Quel poveretto, di solito, siamo noi.

Inefficienza a 360° di chi ci governa indipendentemente dal colore, tragica indifferenza da parte di tutti, desiderio di cambiamento ma scarsa volontà di cambiare….La nostra condizione attuale sancisce che l’unica forza davvero in grado di condizionare le nostre azioni e le nostre scelte è il sentito dire.L’arte perversa del manipolare il sentito dire, se non addirittura di crearlo, è la chiave di accesso per la conquista del potere. L’allarmismo e il sensazionalismo becero sono due delle facce più inquietanti dei media. Tutto è dipinto come una minaccia, una crisi, un’emergenza. Ci terrorizzano continuamente, e nulla mi toglie dalla testa che il motivo sia legato al fatto che la paura e l’infelicità siano il vero motore di questa società. Il costante allarmismo dei media induce molta gente ad essere spaventata, e dunque a non ragionare in modo lucido. Perché è molto più facile indirizzare qualcuno quando è intimorito, dirgli quel che deve fare, manovrarlo. In una situazione di stress, un poveretto rischia di farsi prendere dal panico, finendo per seguire i consigli di individui solo in apparenza più sicuri o qualificati.

Quel poveretto, di solito, siamo noi.

Aggettivi da prima pagina che colpiscono l’immaginazione, perché si punta sulla superficialità di chi legge, che in genere non approfondisce e si ferma ai titoli urlati. La gente viene bombardata giornalmente da migliaia di informazioni, i media sono affollati di notizie e per farsi ascoltare sono “costretti” ad alzare la voce per attrarre l’attenzione.

Venditori di Paura?